Scoprirsi

Pensai che fosse un gran bel problema. Stentavo a credere che potesse essere vero, ma palesemente lo era. Il fatto è che nessuno ti avverte. Nessuno ti dice, quando sei piccolo  <<sai figliolo, stando alle statistiche c’è la possibilità del 35% che tu possa essere gay, quindi preparati, potresti essere tu il finocchio fortunato!>>. Ovviamente, riformulato in altri termini, un discorso del genere sarebbe di sicuro di grande aiuto. Ed invece passi dall’infanzia all’adolescenza con una tale rapidità da non ricordare quasi niente di quando hai pronunciato le tue prime parole. Impari prima a camminare, all’inizio gattonando, poi, lentamente, le tue mani abbandonano il pavimento e lì, su due piedi, ti senti quasi invincibile, inconsapevole di quanto presto quelle mani avrebbero ritoccato il pavimento. E non per camminare. Intanto ti fanno crescere guardando i cartoni animati della Disney, in cui c’è sempre l’eroe bello e buono che salva la principessa bellissima e in attesa del suo principe, fino ad arrivare al bacio che consacra il lieto fine. Un bel giorno ti svegli e capisci che stai diventando grande, e il primo segno è l’abbandono delle vasche con le palle colorate, in cui fino a qualche giorno prima nuotavi e ti dimenavi felice, tra giochi e pupazzetti che incarnano gli idoli e gli eroi di una vita che ti sa di giusto. Dopo una decina di cartoni animati, film per bambini e discorsi sull’imminente domani, credi ormai che la normalità sia proprio quella: un giorno incontrerai una bellissima ragazza dai capelli lunghi e dalla castità indiscutibile, con la quale avrai tanti bambini urlanti che tu e la tua bella alleverete nel cottage di campagna, con il cane bianco e l’orticello sul lato, lamentandovi della vostra routine medio borghese. Il problema è che poi arriva la pubertà, e quella rovina tutto. Ormoni impazziti che giocano a rincorrersi per tutto il corpo, libido che sale all’impazzata, la scoperta che l’amico lì sotto è una fonte inesauribile di piacere, e non solo lo strumento per dar voce alla tua vescica. Una volta scoperto questo, niente è più lo stesso. Soprattutto quando poi, da un giorno all’altro, ti ritrovi a fantasticare sul corpo voluttuoso e nerboruto del principe azzurro, più che sulle tette della bella principessa che ancora dorme. E man mano che le fantasie aumentano e gli anni passano, man mano che il tuo amico lì sotto impazzisce alla vista di corpi muscolosi di ragazzi, i cui addominali e pettorali farebbero invidia persino alle pietre, c’è una domanda piccola eppure pesante che s’insinua prepotentemente nella testa, tanto da non lasciarti in pace: ma per caso, sono gay?

Se la pubertà cambia e disincanta tutto, una domanda come questa ti porta, quasi inevitabilmente, alla devastazione totale. Ed io ci pensai, anche molto. Già all’età di dodici anni mi guardavo allo specchio chiedendomi cosa non funzionasse in me. Credevo di essere come quei giocattoli con un difetto di fabbrica, come se qualcosa dentro di me fosse sbagliato, come se fosse stato inserito un pezzo piuttosto che un altro. Ho passato cinque anni e mezzo della mia vita guardando in quello specchio, ed ogni volta ci vedevo un errore. Una bozza, un disegno mal riuscito, una riga disegnata tutta storta.

La mia gabbia personale, però, fu il liceo. L’inferno fatto cemento e mattoni. Cercavo di nascondermi tra gli altri, di confondermi, sperando di non dare troppo nell’occhio. Impresa abbastanza ardua, dato che ero l’unico ragazzo in una classe di ventinove ragazze. Ho scoperto a mie spese che una costituzione minuta, come la mia, e la timidezza, come quella che mi caratterizzava in quel periodo (e che in parte mi caratterizza ancora, lo ammetto), erano spesso confuse con l’essere omosessuale. Mi capitava non di rado di camminare per i corridoi della scuola e sentirmi chiamare con nomignoli come “ricchione”, “frocetto”; arrivarono addirittura a chiamarmi Cheetah, come la scimmia di Tarzan, e di certo non perché avessi l’aspetto di uno scimpanzé. La rabbia per quegli insulti era paragonabile ad una bomba in via di esplosione, ma la paura che gli altri scoprissero il mio “segreto” non era nulla in confronto. Qualche anno fa la parola GAY, OMOSESSUALE, o l’immagine di un uomo che bacia un altro uomo, erano tutte sinonimo di qualcosa di negativo. Se si sapeva che sei gay allora, inevitabilmente, ogni uomo eterosessuale (o, comunque la maggior parte) si teneva ( e si tiene) alla dovuta distanza perché “poi sicuramente potrebbe provarci”. Quanta pena mi facevano ( e mi fanno tutt’ora) quegli uomini, quelle persone che odiano individui i cui gusti sessuali sono diversi dai loro, più per paura e per conformismo che per puro odio. Oggi so che la maggior parte degli omofobi (per chi non conoscesse tale termine: persone la cui ignoranza è talmente elevata e pregnante da non riuscire a concepire due persone dello stesso sesso condividere amore e letto) sono persone spaventate, quasi terrorizzate di scoprire che loro stessi potrebbero provare piacere ad andare a letto con un altro uomo, e non avete idea di quanti omofobi al mondo ci sono che di giorno insultano gay e transessuali e poi, di notte, si fanno strappar via le mutande proprio da quelli che fino a qualche istante prima chiamavano abominio. A distanza di una manciata di anni (prendendo come riferimento personale il lasso temporale dal liceo ad oggi, all’incirca sette anni) le cose sono cambiate, ma solo di facciata.

Oggi ho sicuramente più certezze e meno paure, avendole trasformate in coraggio. Ma ai tempi del liceo era tutta un’altra storia. Ero talmente terrorizzato che si sapesse di me che finii col fidanzarmi con una ragazzina della mia classe, in secondo liceo. Poi, due anni dopo, finalmente capii. Non ero mai stato spaventato dai bulletti della scuola, né dai loro nomignoli né dalle loro arie da duri. Ero sempre stato terrorizzato da me stesso. Crescere in una società che non accetta facilmente una persona “diversa” dal punto di vista dell’orientamento sessuale, di certo non aiutava. Non ricordo chiaramente tutti i pensieri che mi bombardavano il cervello in quel periodo, ma c’è una cosa che non dimenticherò mai della mia adolescenza: il profumo della paura. Era impregnato sulla mia pelle, così tagliente da solcare l’epidermide ed avvolgere ogni mio organo. Avevo paura col cuore, con il fegato, con i polmoni, con i reni, con la milza, ero pietrificato dalla paura. Avevo passato troppo tempo a rinnegare me stesso, ad auto lesionarmi sperando di “guarire”. Però succede che un giorno ti svegli e, semplicemente, sei stanco. Di tutto, ma della paura e del dolore soprattutto. Troncata la mia relazione adolescenziale con l’unica ragazza che abbia mai avuto, trovai in mia sorella maggiore, Mia, un’ancora di salvezza. Le confessai di essere gay su uno scoglio a Cetara, in provincia di Salerno. Tra una risata e l’altra, tra un tuffo ed una sigaretta, la guardai fisso negli occhi e vedevo in lei un Ray che non conoscevo. Una battuta sul seno prosperoso di una bagnante fece scattare in me quella scintilla, quella nota di disperazione, di claustrofobia. Un’esplosione che dilania dall’interno. Avete presente quando un fiume in piena non esce semplicemente dagli argini, ma li distrugge con tutta la sua potenza? Ecco, quella è stata esattamente la stessa intensità del mio “sono gay!“. E ogni paura, ogni costruzione mentale in cui mi vedevo allontanato dalle persone che amo, sono state dilaniate da un unico meraviglioso sorriso: quello di Mia. Aveva gli occhi commossi, fieri, orgogliosi come lo è una madre che guarda suo figlio crescere. Era come se non aspettasse altro, come se sapesse tutto già da tempo. Aspettava che prendessi coraggio, che mi decidessi a confessarle tutto, o aspettava semplicemente il giorno in cui mi sarei stancato di tutto quel farfugliare sul sedere delle ragazze, di tutti quei finti apprezzamenti. Probabilmente aspettava che nascessi per la prima volta. Saltai dalla scogliera in un tuffo a bomba, urlando a squarciagola. Sentivo una tempesta tuonarmi in petto. Volevo scuotere il mare, farlo impazzire tra onde che si sarebbero scontrate e schiantate contro gli scogli. Avevo liberato lo tsunami che portavo dentro. E non mi ero mai sentito così vivo, così giusto. Da quel giorno sugli scogli sono passati quasi otto anni. Non vi nego che dentro me porto ancora, in parte, quel ragazzino spaventato, vittima di se stesso, ossimoro tossico del suo stesso riflesso. Oggi ho imparato cos’è l’amore, l’ho masticato e scandagliato al punto da provare sulla mia stessa pelle il sapore della rivoluzione, e l’ho perso. Ma non è questo il punto, ragazzi miei: ciò che aspettavo da sempre era sentirmi libero (e non mi viene difficile pensare che anche tu che stai leggendo non aspettavi o non aspetti altro) in ogni modo in cui una persona può sentirsi libera, iniziando da se stessi, dal cuore e dalla mente. Per cui imparate ad amarvi quel pizzico in più per abbandonare la sensazione di stasi e lanciarvi, finalmente, in quella smodata, rocambolesca perdita di equilibrio che è la vita.

Ray Cohen